1. Introduzione
La scrittura, secondo l’espressione di Walter J. Ong, è un mezzo per «tecnologizzare la parola» (Ong 2014, 133). Questa definizione può richiamare alla mente l’immagine di uno strumento neutro, ma lo stesso Ong si affretta ad aggiungere che la scrittura non è una «semplice appendice del discorso orale» (2014, 138); al contrario, essa tende a scavalcare l’oralità nella normale gerarchia onto- e filogenetica e a sostituirsi ad essa, introducendo nella «popular, common-sense theory of language» (Linell 2009, 11) un pregiudizio per cui la ‘vera’ lingua è solo quella che è scritta[1]. Questo rovesciamento di prospettiva è alla base del concetto di ortografia, sviluppatosi in seno alla scuola grammaticale greca bizantina e definito da Banfi come la «fissazione di norme grafematiche ancorate al passato, programmaticamente insensibili all’idea di indicare nella scrittura il divenire e i mutamenti del sistema» (Banfi 2015, 129). Ora, tutto ciò ha conseguenze di grande importanza per le politiche linguistiche, poiché, da un punto di vista «fatto proprio in genere dal parlante» (Iannàccaro/Dell'Aquila 2008, 311), mettere una lingua per iscritto costituisce «un'ufficializzazione del parlato, una sua nobilitazione, un passaggio alla posterità potenziale» (ibid.), equivale, cioè, a promuoverla allo status effettivo di lingua sia all’interno di una comunità linguistica che al di fuori di essa, rendendola nel contempo concretamente visibile e migliorando le sue prospettive di sopravvivenza. La scelta dell’ortografia è perciò un passaggio fondamentale della pianificazione linguistica, e in particolare della prima fase, quella di corpus planning (Coluzzi et al. 2018, 493). Esistono varie tipologie di ortografie, alcune programmaticamente più fedeli alla rappresentazione del livello fonetico/fonologico di altre[2], tutte accomunate, però, dalla fondamentale assenza di un legame necessario con la realtà del parlato, la quale è caratteristica, invece delle trascrizioni; la differenza è così riassunta da Iannàccaro/Dell’Aquila:
«Trascrivere una lingua e darle un’ortografia, in effetti, sono due operazioni distinte, che soggiacciono a esigenze e criteri ben diversi: nel primo caso si scrive per registrare, ossia semplicemente per cambiare mezzo di trasmissione, da acustico a visivo, pur rimanendo nel campo dell’oralità […]. Per scrivere davvero, cioè per cambiare medium comunicativo da orale a scritto, ci vuole un’ortografia, ossia un sistema di scrittura «normale», che, al limite non rispecchiando le particolarità foniche della lingua, consenta però di capirne le articolazioni anche morfologiche e semantiche e sia leggibile anche al non specialista.» (2008, 313-314, corsivo originale)
In sintesi, un’ortografia deve assolvere a due tipologie di compiti: da un lato, essa è progettata per servire da norma di riferimento per una determinata comunità linguistica, alla quale deve fornire risposte pratiche alla domanda «come si scrive?» (Iannàccaro/Dell’Aquila 2008, 316). Perciò, a differenza di un sistema di trascrizione, che deve teoricamente essere in grado di rendere univocamente ogni suono umano indifferentemente dalla lingua in questione, un’ortografia risulta di rado adeguata per scrivere varietà linguistiche diverse da quella per la quale è stata ideata; questo fatto, combinato alla identificazione tra lingua e scrittura cui si è accennato, crea una forte associazione simbolica tra una varietà linguistica e la sua ortografia, la quale finisce dunque per rispondere a un’altra serie di bisogni della comunità, riassumibili nelle domande «che forma vorremmo che avesse la nostra lingua o il nostro dialetto? A cosa vorremmo che assomigliasse e da cosa vorremmo che si distinguesse?» (Iannàccaro/Dell’Aquila 2008, 313). Un ottimo esempio di questo sviluppo è offerto ancora dal greco di epoca bizantina: quando la koiné assunse una forte valenza ideologica in quanto lingua ufficiale dell’Impero d’Oriente, si trattava di una varietà unitaria solo ai livelli più alti della produzione scritta, e perciò «la ‘rappresentazione’ stessa della lingua, le modalità della sua resa grafematica furono considerate come investite da un’aura sacrale» (Banfi 2015, 133). L’identificazione tra lingua e ortografia divenne talmente stretta che
«il fissare per iscritto il greco utilizzando le tradizionali forme, rese canoniche in età ellenistica, oppure servendosi di notazioni grafematiche ‘altre’ […] sarà via via prezioso indizio di mutata percezione […] di ‘stati’ di lingua diversi, di condizioni sociolinguistiche veicolanti, di fatto, qualcosa di linguisticamente ‘altro’ rispetto al greco della tradizione ellenistico-romana (e, poi, del greco bizantino o medievale).» (Banfi 2015, 127)
Considerare la percezione, da parte di chi scrive, delle norme ortografiche e del loro legame con la lingua apre la prospettiva di un’analisi dello scrivere come pratica sociale: i sistemi di scrittura, lungi dal presentarsi ai loro utenti come strumenti neutri, sono invece, come scrive Mark Sebba, «particularly powerful identity markers» (Sebba 2009, 39). L’aspetto identitario è specialmente rilevante nel caso di lingue minoritarie che abbiano cominciato a venire messe per iscritto solo di recente o che dispongano di più convenzioni ortografiche in concorrenza tra loro. Queste comunità linguistiche necessitano di un’ortografia che sia facilmente comprensibile dai propri parlanti, presumibilmente alfabetizzati secondo le norme della lingua standard, ma allo stesso tempo capace di ‘smarcarsi’ da essa[3] e proporre la lingua in questione come un sistema ben distinto, anche a livello visivo, da quello maggioritario. Entro questi limiti, gli scriventi possono servirsi dell’ortografia «as a tool of ‘Abstandsprache’» (Jaffe 2000, 502)[4], manipolandola per rimarcare la peculiarità della propria lingua; tuttavia, la totale originalità non è né realizzabile né desiderabile, e le scelte finiranno inevitabilmente per essere influenzate da modelli già esistenti. In questo senso, l’analisi delle strategie grafiche utilizzate, e di come esse avvicinano o allontanano la lingua da certi sistemi ortografici (e quindi, per traslato, linguistici), può aprire uno spiraglio sulla «coscienza linguistica di chi le elabora» (Iannàccaro/Dell’Aquila 2008, 311).
2. Obiettivo di ricerca
In questo contributo verrà trattata la questione delle abitudini grafiche dei parlanti di lingue minoritarie in ampito alpino, tramite all’osservatorio privilegiato offerto dal progetto di geolinguistica digitale VerbaAlpina (Krefeld/Lücke 2014b): grazie all’esistenza, al suo interno, di una piattaforma di crowdsourcing, gli utenti (crowders) possono contribuire alla documentazione, inserendo, per ogni concetto, la forma linguistica propria della loro varietà. Le Alpi sono fortemente caratterizzate dal multilinguismo: vi si incontrano infatti tre famiglie linguistiche (romanza, germanica, slava) rappresentate non solo da lingue ufficiali (francese, italiano, tedesco, sloveno) ma da un gran numero di lingue più ‘piccole’ per numero di parlanti[5]. In questa sede l’attenzione sarà ristretta ai contributi crowd di aree romanzofone, e dunque occitane, francoprovenzali, ladine, romance e friulane: per ognuna di queste comunità è stata proposta almeno una norma ortografica, ma normalmente ve ne sono diverse in concorrenza tra di loro, e tutte si devono confrontare con gli standard ortografici delle lingue ufficiali presenti, spesso contemporaneamente, sul territorio. L’obiettivo principale è dunque analizzare le principali soluzioni grafiche utilizzate dai crowder, valutando in che misura queste si adeguano alle norme proposte o ad altre consuetudini radicate nel territorio, anche tenendo conto dell’insegnamento scolastico della lingua minoritaria, dove questo è previsto. Invece di considerare la totalità dei sistemi ortografici, che richiederebbe ben altro spazio, si è scelto di concentrarsi sulla resa delle consonanti palatali, che si adattano bene agli obiettivi di ricerca, per diversi motivi: in primo luogo, esse sono espresse in modi fortemente connotati con le ortografie delle lingue ufficiali: per esempio, la fricativa palatale sorda /ʃ/ è notata <ch> in francese, <sch> in tedesco, <sc> davanti a <i/e> in italiano, <š> in sloveno (senza dimenticare il modello dell’inglese <sh>). Si può ricavare da questo esempio, ma altri se ne potrebbero mostrare, che la notazione ortografica di tratti palatali viene spesso affidata alla combinazione di più grafemi o a segni diacritici apposti a un carattere di base, ciò che sembra indicare una certa marcatezza di questo tipo di fonemi rispetto alle consonanti ‘normali’, riflessa in un dibattito esistente in fonetica sulla loro natura di segmenti complessi (che prevedono, cioè, l’esecuzione di più di un gesto articolatorio, cf. Recasens 1990, 277-278). Non stupisce, dunque, che le consonanti palatali siano espresse in maniera variabile anche nelle ortografie di lingue minoritarie, per le quali sono spesso un punto dolente: Turello scrive esplicitamente che, nel caso del friulano, «la grafia per /ʧ/ e /ʤ/ e quella per rendere i suoni /c/ e /ɟ/ (non presenti in italiano) hanno costituito per secoli un problema» (2015, 511-512), e alle palatali è dedicato un paragrafo del capitolo di Rasom 2020 sulla storia della normazione ortografica del ladino, mentre le differenze tra le convenzioni grafiche dei dialetti francoprovenzali è illustrata in Russo/Stich 2019 tramite esempi contenenti in maggioranza parole con segmenti fonetici palatali. Da ultimo, il riflesso palatale di alcune sequenze fonetiche latine come CA-/GA- in posizione iniziale è un’evoluzione caratteristica delle varietà romanze alpine occitane, francoprovenzali e retoromanze (romancio, ladino, friulano) rispetto a quelle di pianura (Recasens/Espinosa 2009, 190-191), il che potrebbe suscitare il desiderio, da parte dei parlanti, di sottolineare questa particolarità ricorrendo a grafie più elaborate per rendere con precisione i dettagli fonetici.
3. Metodologia
I dati sono stati raccolti all’interno del database di VerbaAlpina tramite una query SQL appositamente costruita[6], che ha estratto, in un primo momento, le attestazioni (tokens) provenienti dagli atlanti (ASLEF, ALJA, ALF, AIS, ALD-I, ALD-II, ALEPO, ALP) e dai dizionari (APV, ALTR, LSI) rilevanti per l’area romanzofona che contenessero almeno uno tra i simboli IPA [c, ç, ɕ, ʥ, ʤ, ʝ, ɟ, ʒ, ɲ, ʎ, ʃ, ʧ, ʨ, ʑ][7]. I risultati sono stati raggruppati in base al tipo morfolessicale, che rappresenta, all’interno di VerbaAlpina, «the central category in the management of linguistic data» (Colcuc/Zacherl 2022, 61). Per ogni attestazione, sono state recuperate le informazioni relative al numero identificativo ('id_morph_typ'), la sua forma standardizzata ('Orth'), il comune di provenienza e il corrispondente numero identificativo ('Ortsname', 'Id_Gemeinde'). La ricerca è stata poi ripetuta, questa volta sui soli contributi crowd e limitatamente ai tipi morfolessicali presenti nei risultati della prima query, aggiungendo questa volta l’informazione ‘Georeferenz’, che contiene le coordinate geografiche dei comuni corrispondenti. I dati sono stati quindi raggruppati per tipo morfolessicale e per comune
Figura 1. Distribuzione delle grafie palatalizzate del tipo morfolessicale ‘chevre/capra’. |
4. Risultati
La ricerca finale ha restituito attestazioni crowd relative a 471 tipi morfolessicali corrispondenti ai simboli IPA specificati, distribuiti su 236 comuni dell’area alpina. Tuttavia, poiché la maggior parte di essi è rappresentata da un numero molto esiguo di contributi, spesso anche da una sola attestazione, in questa sede verranno mostrati solo alcuni esempi da tipi morfolessicali che continuano le basi latine CA-/GA-, che costituiscono il gruppo numericamente più consistente e geograficamente meglio distribuito all’interno del corpus. In questo modo sarà possibile trarre delle conclusioni più solide riguardo all’uso delle strategie attestate nei diversi contesti linguistici. La cartina interattiva in fondo all’articolo offre una visione d’insieme dei tipi morfolessicali considerati.
In Figura 1 sono rappresentate le grafie crowd per il morfotipo meglio attestato nel corpus, ovvero ‘chevre/capra’[8], che fornisce un’ottima base per l’esposizione globale dei risultati della ricerca, poiché vi si trovano rappresentate tutte le principali strategie grafiche rilevate. Si notano quattro raggruppamenti compatti formati dalle grafie <cj>, <ci>, <tch> e <ch>, corrispondenti ai territori di lingua friulana, ladina dolomitica, francoprovenzale e occitana. Ognuna di queste grafie è riconducibile a una qualche proposta normativa, avanzata di solito da istituti culturali votati alla tutela delle lingue locali, ma nel caso del ladino essa è adottata anche nell’insegnamento scolastico. L’uso di <cj> è previsto nell’ortografia ufficiale del friulano per esprimere l’occlusiva palatale sorda /c/, distinta dall’affricata /ʧ/, a sua volta espressa con <ç>[9]. L’area ladina dolomitica presenta compattamente <ci>, che rappresenta, nella grafia standard del ladin dolomitan, sia l’occlusiva palatale /c/ e che l’affricata alveopalatale /ʧ/; nella grafia unificata del 1987, invece, questi fonemi erano tenuti distinti e rappresentati, rispettivamente, da <ć> e <c(i)> (Rasom 2020). La grafia <ci> viene però a coincidere con la convenzione italiana, dove rappresenta /ʧ/ prima di <a/o/u>, e infatti essa ricorre anche altrove in territorio italiano (in Val Chiavenna, in provincia di Savona e in due località della Val di Non). Nelle valli occitane del Piemonte e a Chambéry, nella Savoia francese, area francoprovenzale, si trova <ch>, che coincide con l’uso francese per scrivere la fricativa aleveopalatale /ʃ/, mentre qui è più probabile che nasconda una consonante affricata, il cui luogo di articolazione varia da postalveolare ad alveolare a seconda delle varietà; è questo il valore che assume in entrambe le proposte ortografiche maggioritarie per le parlate occitane, quella “classica” e quella “concordata” (Regis/Rivoira 2019, §17). Le valli francoprovenzali del Piemonte, tuttavia, restituiscono solo <tch>, coerentemente con quanto propone lo sportello linguistico francoprovenzale della Valle d’Aosta[10]. Questa grafia è riportata da Russo/Stich (2019, §28) come la soluzione per le consonanti palatali provenienti da CA- latino in varie ortografie locali francoprovenzali, specialmente
quelle della Svizzera franese e della Savoia del Sud[11]. Inoltre, <tch> compare anche nell’ortografia francese con il valore /ʧ/, in alcune rare parole come <Tchèquie> ‘Repubblica Ceca’.
Le altre grafie sono meno diffuse e si limitano a singole attestazioni: a La Giettaz, nella Savoia francese, si trova <sty>, soluzione apparentemente idiosincratica, ma identica alla forma <styévra> riportata da Russo/Stich (2019) come esempio della grafia della varietà francoprovenzale di Beaufort, a meno di un’ora di macchina da La Giettaz. Spostandoci, invece, nel settore centro-orientale delle Alpi, troviamo <c’> e <tg>, entrambe in territorio svizzero: la prima da Biasca, nel Canton Ticino, dove si parla un dialetto di tipo lombardo alpino, e la seconda da Tujetsch, nel Cantone Grigioni, area di parlata romancia sursilvana[12]. Riguardo a <c'>, si tratta di una soluzione conosciuta dalla lessicografia ticinese per notare l'affricata palatale sorda (mentre <g'> rende la sonora), ma unicamente quando precede una consonante in corpo di parola, mentre in posizione iniziale assoluta di parola l'ortografia è la medesima italiana, ovvero <c(i/e)> ( LSI I: 21); l'uso di <c'> all'inizio di parola è dunque un adattamento personale che tende a una maggiore distanziazione dall'ortografia italiana. Il carattere intuitivo ("spontaneo", appunto) di questa strategia sembra confermato dalla sua presenza nell'«alfabeto italiano piegato», come lo descrivono Iannàccaro/Dell’Aquila (2008, 324, corsivo originale), del Vocabolario del dialetto di Barni, peraltro sul lago di Como, non lontano dal Cantone Ticino, la cui grafia è stata definita in sostanziale autonomia dagli stessi dialettofoni, che componevano il gruppo di redazione, assistiti dai linguisti Iannàccaro e Dell'Aquila. Il digramma <tg> è invece impiegato per scrivere l’occlusiva palatale /c/ nelle varietà surmirane, sursilvane e sutsilvane del romancio, mentre quelle engadinesi usano <ch>. L’ortografia standard del rumantsch grischun (RG), la norma sovralocale artificiale per le varietà di romancio ideata da Heinrich Schmid nel 1982, prevede invece un compromesso per cui all’inizio di parola, davanti alle vocali <a> e <o>, si usa <ch>, in tutti gli altri casi <tg> (per l’ortografia del romancio grigionese, v. Caduff et al. 2006). Ora, è noto che l’introduzione del RG ha incontrato aspra resistenza, anche per quanto riguarda la sua introduzione come lingua d’insegnamento a scuola, da parte di molte comunità romance, alcune delle quali hanno deciso di attenersi, o di ritornare, all’uso della varietà locale. Tra queste c’è la comunità sursilvana di cui fa parte proprio Tujetsch, da dove abbiamo il contributo <tgaura> ‘capra’ invece della forma RG <chaura>, che rimane fedele a una grafia fortemente legata alla varietà locale[13]. Le rimanenti grafie per il morfotipo ‘chévre/capra’, <chj> e <chji>, provengono, rispettivamente, da Rabbi e Castelfondo, entrambe località della Val di Non, a nord di Trento, e sembrano ricombinare elementi di altre strategie già esaminate, ovvero <ch>, <ci> e <cj>, anch’esse presenti nei contributi crowd provenienti dai comuni circostanti. In Val di Non si parla un dialetto di tipo trentino conservativo, il noneso, che presenta diversi tratti in comune con il ladino, tra i quali proprio la palatalizzazione di CA- latino, ma non gode di tutela giuridica speciale (ma cf. quanto si dirà nella Discussione), né possiede un’ortografia ufficiale. Tuttavia, è stato possibile reperire esempi di <chj> in due contesti esterni: nella pagina Wikipedia dedicata al dialetto noneso[14], dove compare unicamente nella trascrizione nella varietà di Rabbi della favola esopica “La volpe e il corvo”, (in <chje> ‘che’ e <chjantar> ‘cantare’), e nella pagina di presentazione del sito dell’Associazione Storico Culturale Linguistica “El Brenz”[15], (in <politichja> ‘politica’ e <chjör> 'cuore'). La grafia <chji> può essere interpretata come una variante personale. Nessuna di queste soluzioni sembra però godere di grande popolarità nell’ambito di scritture spontanee, come suggerisce un rapido scorrimento della pagina Facebook “Una parola nonesa al giorno”[16], dedicata alla divulgazione del «dialetto della bassa Val di Non» (dalle informazioni della pagina): nei suoi post la grafia <chj> non compare mai, mentre si trova una maggioranza quasi assoluta di <ci> con qualche occorrenza di <cj> e del corrispettivo sonoro <gj>.
Figura 2. Distribuzione delle grafie palatalizzate del tipo morfolessicale ‘chien/cane'. |
Figura 3. Distribuzione delle grafie palatalizzate del tipo morfolessicale ‘caciare/chaschar’. |
Figura 4. Distribuzione delle grafie palatalizzate del tipo morfolessicale ‘champo/campo’. |
Questa esposizione esaurisce le principali grafie presenti nel corpus per i tipi morfolessicali derivanti da CA-/GA- latini. Un confronto con altri tipi (ad esempio 'chien/cane', 'champ/campo', 'caciare', nelle Figure da 2 a 4) conferma <ch>, <ci> e <cj> come le soluzioni più comuni, la prima utilizzata in diverse aree dell’area alpina, le altre diffuse principalmente nelle Dolomiti ladine e friulane. <Chj> e <chji> si dimostrano strategie idiosincratiche della Val di Non. L’unica aggiunta al repertorio delle grafie è offerta dal tipo morfolessicale ‘champ/campo’ con la forma <čémp>, da Selva di Cadore (BL), che impiega lo haček o “pipa”, un diacritico introdotto per la prima volta nel XV° secolo con la riforma hussita dell’ortografia della lingua ceca, nella quale ancora oggi rappresenta /ʧ/; il suo uso è conosciuto anche da diverse ortografie friulane non ufficiali e precedenti alla standardizzazione degli anni ’80 (Turello 2015).
Figura 5. Distribuzione delle grafie palatalizzate del tipo morfolessicale ‘chat/gatto’. |
Il morfotipo ‘chat/gatto’ (Figura 5) mostra alcuni analoghi sonori delle grafie finora esaminate, che si riferivano a fonemi sordi[17]: per la maggior parte, l’unica differenza è la sostituzione dell’elemento occlusivo <c> con <g>, mentre a Cortina d’Ampezzo (BL) si ha <jato>, in contrasto con il resto della Ladinia che ha <gi>. L’effettivo valore fonetico del grafema <j> è difficile da specificare, dal momento che GA- latino ha dato negli idiomi ladini una serie di esiti diversi come /ʤ/, /ɉ/, /j/ (Salvi 2020, 74): in questo caso, un interpretazione semivocalica o fricativa di <j> si può spiegare con l’assenza, in ampezzano, dell’affricata palatale sonora (Rasom 2020, 329). Nelle aree alpine dove la sonorizzazione della velare iniziale di CATTU non è avvenuta, ritroviamo le stesse grafie già incontrate, con l’eccezione di <satte> a La Thuile (AO), che testimonia l’avanzamento del fenomeno della palatalizzazione dei nessi CA-/GA- fino allo stadio alveolare, tipico dell’area francoprovenzale (Russo/Stich 2019, §39).
5. Discussione e conclusioni
Il nostro esame delle strategie grafiche adottate dai crowder di VerbaAlpina per scrivere consonanti palatali ha messo in luce diversi aspetti importanti: in primo luogo, riguardo alla loro distribuzione nello spazio, si può distinguere tra le grafie a circolazione sovraterritoriale, impiegate in diversi punti dell’area romanza alpina, e quelle concentrate in una sola area, corrispondente all’estensione territoriale di una certa varietà linguistica. Tra le prime, <ch> e <ci> sono soluzioni ortografiche proprie di due importanti lingue veicolari ben note nelle Alpi, il francese e l’italiano, e hanno dalla loro parte la semplicità di esecuzione; quest’ultima potrebbe anche spiegare la presenza di <cj> nella provincia di Trento, poiché non è chiaro se questa sia dovuta a un’ispirazione al modello friulano, nel quale il digramma fa parte dell’ortografia ufficiale. Nel secondo gruppo troviamo grafie eterogenee e anche piuttosto complicate, come <sty>, per le quali è però sempre possibile individuare un modello preesistente tra le ortografie proposte per le varietà linguistiche alle quali sono legate. Tuttavia, i crowder non si limitano alla passiva accettazione di queste proposte ma possono adattarle in modo più personale, come nel caso del <c'> ticinese, che a Biasca viene utilizzato in posizioni non previste dall'ortografia del LSI. Le uniche strategie per le quali non è stato trovato un parallelo "ufficiale" sono <chj> e <chji> in Val di Non/Val di Sole, ma anche in questo caso, almeno per la prima esistono testimonianze di un suo limitato uso in rete, e la seconda può ben essere interpretata come una sua variante. Il discorso sui contributi crowd di questa parte della provincia di Trento merita un commento ulteriore, poiché si tratta dell’unica area per la quale si osserva una costante mancanza di accordo nelle scelte grafiche per lo stesso morfotipo: non a caso, la varietà linguistica locale è una delle poche, all’interno del nostro corpus, a non conoscere una vera e propria standardizzazione ortografica e a non godere di tutela ufficiale; ciò ha alimentato una crescente richiesta, da parte della comunità locale, di riconoscimento di una “ladinità anaunica” parallela a quella sellana, e di conseguente estensione ad essa delle tutele in materia di politica linguistica previste dalla legge 482/99, che la regione Trentino-Alto Adige, però, a tutt’oggi non ha concesso (per tutta la questione, si veda Toso 2008). Ciononostante, il sentimento di appartenenza al ceppo ladino continua a venire sostenuto da associazioni culturali come la già citata “El Brenz”, che usa sul suo sito la grafia <chj>, e il fatto che questa non corrisponda a nessun’altra strategia in uso nell’area non sembra casuale, anzi risponde molto bene al bisogno di Abstand del quale si è parlato nell’introduzione. Tuttavia, i dati in nostro possesso mostrano come, in mancanza di un’adeguata politica linguistica, i crowder anaunici, in contesti quali una pagina umoristica in rete, dove il bisogno di sottolineare la differenziazione linguistica è minore, adottano tranquillamente soluzioni più semplici e sostenute da modelli consolidati, come <ch>, <ci> e <cj>. La situazione appare molto diversa là dove l’esistenza di una minoranza linguistica non solo è radicata nella coscienza comune, ma è anche ufficialmente riconosciuta e tutelata: i crowder provenienti da queste regioni sono coerenti, nella resa delle consonanti palatali, non solo con sé stessi e con la maggior parte dei crowder della medesima area linguistica (v. cartina interattiva), ma anche con le proposte ortografiche elaborate sul territorio. I migliori esempi in questo senso sono la Ladinia dolomitica, il Friuli e il Cantone Grigioni, dove la compattezza delle strategie grafiche rispecchia la buona circolazione dei modelli standard, aiutata, nel caso del ladino e del romancio, dalla loro presenza nelle scuole come lingua d’insegnamento. Anche là dove quest’ultima possibilità, di chiara importanza, non è prevista, la diffusione di modelli ortografici può seguire altri canali: le grafie rilevate in ambito francoprovenzale, per esempio, si lasciano ricondurre sia a convenzioni ideate da enti dedicati, come il già citato sportello linguistico francoprovenzale della Valle d’Aosta, che a tradizioni fortemente locali che godono di supporto ‘dal basso’.
Note
[1] In The Written Language Bias in Linguistics, Per Linell scrive che, secondo questa concezione, «talk and spoken languages are not real language; they are incoherent and incomplete, often faulty, impoverished, unclear, impure and illogical, sometimes even improper, foul or uncivilised, whereas writing and written language are (or can be) really fully fledged language; they are (or should be) proper, correct, clear, logical and coherent.» (2009: 11-12)
[2] Una proposta di classificazione molto seguita si trova in Iannàccaro/Dell’Aquila 2008.
[3] Pafrasando l’espressione «creating distance» di Sebba (2009, 42).
[4] Il riferimento è alla fortunata classificazione proposta da Heinz Kloss (Kloss 1967) in ‘lingue per elaborazione’ (Ausbausprachen) e ‘lingue per distanziazione’ (Abstandsprachen).
[5] Almeno una di esse, il romancio, è però una delle lingue ufficiali della Svizzera.
[6] I miei ringraziamenti per il loro aiuto in questa fase vanno a Beatrice Colcuc e Florian Zacherl.
[7] Gli unici segmenti consonantici a essere definiti come esclusivamente palatali nell’IPA sono [c, ç, ʝ, ɟ, ɲ, ʎ]; tuttavia, Recasens 2014 ha osservato che questi hanno spesso un’articolazione in parte alveolare, tanto da proporre una scissione della categoria in “palatale” e “alveopalatale”. La ricerca è stata perciò estesa anche ai segmenti tradizionalmente indicati come “palatoalveolari” e “alveopalatali”.
[8] La cartina non riporta le forme senza palatalizzazione, per le quali si rimanda alla mappa interattiva.
[9] I corrispettivi sonori sono <gj> per /ɉ/ e <z> per /ʤ/.
[10] https://www.patoisvda.org/site/allegati/1-tavola-delle-corrispondenze-tra-suoni-e-grafemi_1851.pdf.
[11] Le parlate francoprovenzali, diffuse nelle zone confinanti tra Svizzera, Italia e Francia, ancora non hanno conosciuto una unificazione ortografica, nonostane l’esistenza della Orthographie de référence B proposta da Dominique Stich.
[12] Il romancio è tradizionalmente diviso in almeno cinque sottovarietà, da una parte quelle engadinesi, a est (putèr e vallader), dall’altra quelle centro-occidentali (surmirano, sursilvano, sutsilvano).
[13] Per quanto non sia estranea a certe tradizioni ladine, v. Rasom 2020, 331).
[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_noneso.
[15] http://www.elbrenz.eu/lassociazione-2/.
[16] https://www.facebook.com/naparolaldi/.
[17] La base latina CATTU ha conosciuto, in quasi tutta l’Italia settentrionale, una sonorizzazione della velare iniziale in *GATTU, analoga a quella che ha portato a PALLA > *BALLA > bala.
Cartina interattiva
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